Paesaggio borbonico
Il paesaggio borbonico
“Il Paesaggio è uno dei più bei regali che la Natura abbia fatto ad alcuni paesi”.
In questo principio datato, ma ancora oggi molto invalso, sono insiti tre concetti di fondo: i paesaggi sono naturali, belli e vanno conservati. Chi è chiamato a pianificare e ad applicare i criteri di territorialità deve individuare le potenzialità paesaggistiche, esaltare le valenze dell’area oggetto di disamina, individuare, nel caso di aree degradate, l’originario genius loci, ma, in ogni caso, permetterne la fruibilità anche alle generazioni future.
Il concetto di “paesaggio costruito” si fa largo in questa concezione al pari di quello che comunemente definiamo “paesaggio naturale”, che naturale non è mai in assoluto, in quanto l’azione dell’uomo ha determinato, sin dalla sua comparsa sulla terra, profonde e sempre più incisive modificazioni.
Si rileva l’importanza della costruzione del paesaggio effettuata in Campania dai Borbone, spesso criticati per la loro politica assolutistica, ma dimenticati per i loro interventi sui paesaggi, non solo campani, ma di tutto il Mezzogiorno. I Borbone sono stati, infatti, grandi costruttori di paesaggi, scenario “naturale” delle loro residenze reali, attuando importanti riforme territoriali e agricole.
Per “siti borbonici” s’intendono quegli impianti architettonici che, posti a corona del Palazzo Reale di Caserta, hanno determinato un notevole sviluppo del territorio delle aree circostanti che ancora oggi beneficiano di tale presenza.
I luoghi idonei alla costruzione delle residenze reali dovevano possedere alcune caratteristiche, in particolare gli ambiti ove effettuare attività venatoria. Lo spazio doveva essere molto esteso: non era necessario che i territori fossero coltivati e/o verdi, perché erano gli stessi re a portare sul luogo le specie vegetali più idonee che servivano anche ad attirare gli animali da cacciare. Per raggiungere queste località venivano costruite strade, ma i notevoli lavori eseguiti dai Borbone, furono determinati da obiettivi pratici, ovvero poter raggiungere facilmente le residenze extraurbane, di certo non furono volti a dare risposta ad esigenze sociali ed economiche. La vastità delle aree era motivo limitante la scelta, ma, data la distribuzione e l’entità della popolazione campana dell’epoca, l’ostacolo era facilmente aggirabile.
1 Re Carlo di Borbone, il re progressista, e lo scenario del suo “nuovo Regno”
“«…una volta elevate al grado di libero regno, saranno tue. Va dunque e vinci: la più bella corona d’Italia ti attende»” (La Regina Isabella Farnese al futuro re Carlo, appena maggiorenne, in partenza per la conquista del Regno delle Due Sicilie)
Il 20 gennaio del 1716 nasceva a Madrid uno dei sovrani che hanno più inciso nella storia dell’arte e dell’architettura del nostro Mezzogiorno e dell’Italia intera; a lui si deve la realizzazione di una delle più celebrate opere del nostro grande patrimonio culturale. Si tratta di Carlo Sebastiano di Borbone, duca di Parma e Piacenza con il nome di Carlo I, dal 1731 al 1735, incoronato re di Napoli e Sicilia, con il nome di Carlo VII, dal 1735 al 1759, e poi fino alla morte, re di Spagna con il nome di Carlo III. Primogenito delle seconde nozze di Filippo V di Spagna con Elisabetta Farnese, secondo la linea di successione era il terzo pretendente al trono spagnolo. Fu proprio questo che spinse la madre a fargli ottenere una corona nella nostra penisola, rivendicando l’eredità dei Farnese e dei Medici, due dinastie italiane sull’orlo dell’estinzione. Attraverso una sagace operazione diplomatica la regina Elisabetta ottenne per il figlio il Ducato di Parma e Piacenza, di cui egli divenne Duca nel 1731, e l’anno seguente fu dichiarato Gran Principe, cioè, principe ereditario del Granducato di Toscana.
Il 10 maggio 1734, Carlo di Borbone entrò a Napoli accolto dai sudditi con lo stesso entusiasmo tributato agli Austriaci. Tale atteggiamento di esultanza nasceva da un diffuso e profondo malcontento verso i precedenti regimi e non da un’ottusa disponibilità verso ogni forma di dominazione.
Stavolta, la cessione da parte di Filippo V al figlio di ogni suo diritto, l’interessamento verso gli altri Stati europei garantito dal possesso dei nuovi domini, la presenza del giovane sovrano, sembravano alimentare la speranza di un diverso rapporto fra popolo e governanti. Da tempo era in atto una crisi in ogni ramo dell’amministrazione pubblica e per ristabilire l’equilibrio finanziario del regno occorreva per prima cosa delimitare lo strapotere delle gerarchie ecclesiastiche, anche annullando i loro privilegi nell’ambito dell’edilizia, tema determinante per gli interventi urbani. In merito all’edilizia ecclesiastica, una circolare del ministro Brancone stabiliva la sospensione di tutti gli edifici in costruzione e l’obbligo del regio assenso per le future edificazioni religiose. Questi provvedimenti resero i rapporti tra Napoli e Roma sempre più tesi e si conclusero con il Trattato di Accomodamento (1741), tra Regno di Napoli e Santa Sede, col quale la Chiesa rinunciava a una parte dei suoi privilegi.
In questo modo si vennero a formare quelle premesse socio-politiche per un’effettiva ristrutturazione della città e per la conseguente trasformazione edilizia, attraverso interventi indispensabili per trasformare la struttura urbana di Napoli in quella capitale la cui espansione era stata soffocata dalla situazione deficitaria.
La precedente politica urbanistica si giustificava con l’esigenza di difendere la città e nello stesso tempo di impedire il flusso migratorio verso la capitale, cosa che avrebbe comportato uno spopolamento delle campagne compromettendo l’economia agricola del viceregno, ma le leggi restrittive avevano dato effetti negativi molto profondi.
In realtà il problema era di altra natura: esisteva un rapporto sbilanciato tra Napoli e le altre province. L’inurbamento poteva essere contrastato solo riorganizzando l’agricoltura, ponendo dei limiti al sistema feudale e annullando quei benefici che costituivano il presupposto dello spopolamento delle campagne e dell’addensarsi della popolazione nel centro urbano che, tra l’altro, non alimentava una grande domanda di forza lavoro che restava così sottoccupata incrementando la miseria della città.
Il nuovo governo di Carlo si trovava così a fronteggiare una situazione grave, circondato, nei primi anni di regno, dalla stessa classe dirigenziale che aveva operato sotto il viceregno austriaco e con l’impossibilità di agire da parte del Supremo Magistrato di Commercio, animato da una classe giudiziaria contraria all’innovazione. La riconquistata indipendenza politica non poteva provocare uno stravolgimento della struttura economica ed amministrativa del regno soprattutto nel rapporto tra capitale e province, rapporto che sembrava volersi ulteriormente squilibrare per le esigenze assolutiste tese ad accentrare le funzioni direttive nella capitale.
Bisogna anche ricordare che la funzione delle capitali e del loro rapporto con le province, era uno dei temi più dibattuti nell’ambito dei riformatori illuministi europei del Settecento e Napoli risultava un caso interessante per i suoi estremi squilibri interni e per la sua funzione accentratrice rispetto al Regno, con un’economia in crisi non per la crescita della popolazione, ma per la mancanza di fonti di lavoro. Guardando alla Francia e all’Inghilterra, si evinceva che la sofferta situazione economica poteva essere superata solo se la borghesia e la nobiltà rendevano produttive le proprie ricchezze, risvegliando commercio e agricoltura.
2 Il piano urbanistico: geografia delle regge
Alla base del fervore edilizio che caratterizzò il governo borbonico c’erano dunque due motivazioni, una di natura pratica e l’altra ideologico-culturale. Se da una parte l’edilizia, in un’economia povera come quella napoletana, rappresentava il mezzo quasi immediato di assorbimento di manodopera, dall’altra, nella visione dello Stato assolutista che si veniva a delineare nel corso del Settecento, i grandi edifici pubblici erano considerati il simbolo della nuova realtà politica e costituivano l’esaltazione del potere monarchico. Pertanto anche a Napoli questi edifici non furono più intesi quali semplici episodi architettonici, ma furono visti in rapporto all’intera struttura urbana, anzi suoi elementi caratterizzanti. Con la loro imponenza contribuirono a conferire alla città quel volto di capitale a livello internazionale, simboleggiante il risveglio della cultura.
Tuttavia gli interventi di ristrutturazione furono, per la maggior parte, esteriori e non tennero conto delle urgenti necessità del popolo. In realtà non si riuscì a configurare una nuova forma urbana che potesse diventare il fulcro intorno al quale si sarebbero realizzate le fasi successive di sviluppo.
L’espansione oltre le mura avvenne limitatamente alla sistemazione del litorale di Mergellina e di via Posillipo, mentre i problemi dell’area settentrionale furono affrontati in maniera più incisiva con l’ampliamento del porto. Fu pavimentata la via Marittima oltre ad essere protetta in più punti dalla furia del mare.
Il raccordo con le strade della Marinella e del Borgo Loreto, già avviate sotto il vicereame austriaco, consentì alla città di aprirsi verso i centri della costiera vesuviana e salernitana.
Per la realizzazione dei suoi ambiziosi progetti, il sovrano mal si opponeva all’intervento degli architetti locali, esponenti del tardo barocco napoletano. Domenico Antonio Vaccaro e Ferdinando Sanfelice, i due principali protagonisti, furono raramente richiesti per i nuovi progetti che furono invece affidati a ingegneri militari ed architetti scelti soprattutto nell’ambiente romano, più disponibili ad assecondare meglio la volontà politica che rifiutava quanto si era creato nel passato. Ma né Antonio Medrano né Antonio Canevari, in definitiva, furono all’altezza dei compiti loro assegnati e solo con la venuta di Ferdinando Fuga e Luigi Vanvitelli, i programmi di re Carlo trovarono la loro più felice realizzazione.
In realtà nei primi quindici anni di regno, nella capitale convissero due correnti architettoniche distinte: l’edilizia ufficiale, espressa in un linguaggio d’importazione, e l’architettura locale che portava avanti l’orientamento formale ricco di decorazioni e fantasie negli stucchi.
2.1 La reggia di Capodimonte
Furono fatti immensi sforzi per dotare Napoli delle necessarie strutture rappresentative: il 9 settembre 1738 si pose la prima pietra del palazzo di Capodimonte, anche se il ritmo di lavoro subì un progressivo rallentamento sia per lo scarso interesse del sovrano impegnato, nel frattempo, dall’avvio della costruzione della più fastosa reggia di Caserta, sia per le difficoltà tecniche incontrate per adattare le fondazioni dell’edificio al suolo accidentato.
La costruzione della reggia di Capodimonte fu affidata ad Antonio Medrano e Antonio Canevari, mentre l’ideazione del bosco viene attribuita a Ferdinando Sanfelice. La prima idea fu di costruire un casino di caccia e successivamente un palazzo idoneo ad accogliere la collezione farnese, eredità materna.
La concezione del parco fu influenzata in maniera prevalente dalla necessità di impiantare un numero di alberi idoneo a supportare l’attività venatoria: di qui la presenza di oltre 4000 varietà di alberi secolari, felci, querce, tigli, castagni, cipressi, pini, con un foltissimo e variegato sottobosco.
L’attività venatoria all’epoca, non era solo un “divertimento”, era una vera e propria funzione di stato: vi partecipavano capi di governo, re e nobili, ministri ed anche artisti e pittori chiamati a ritrarre le cerimonie e a testimoniare la grandiosità dello scenario paesaggistico.
Il Palazzo è caratterizzato dallo lo stile dorico, considerato il più idoneo per un edificio destinato ad ospitare anche una sede museale. Le membrature in piperno grigio, contrastano con il rosso napoletano delle pareti intonacate.
Per quanto riguarda il bosco, il progettista riuscì a fondere il nuovo spirito raziocinante e il gusto tardo barocco. I cinque lunghissimi viali sono fiancheggiati da alberi disposti regolarmente che s’intersecano a viali minori offrendo improvvise prospettive e una sistemazione arborea scenografica.
Già al suo primo sorgere il parco aveva un aspetto molto “naturale”, con una felice combinazione tra la tipologia propria dei giardini all’italiana e quella apparentemente spontanea del giardino all’inglese e appariva a chi l’attraversava un elemento perfettamente in linea con l’ambiente.
L’impressione che si riceveva era quella di una residenza principale ed altre minori costruite all’interno di un’area boschiva preesistente. Eppure gli alberi secolari erano stati impiantati scegliendo con cura le varietà, mentre l’irto e impervio percorso con cui in origine si raggiungevano reggia e parco, fu sostituito da un’ampia strada d’accesso. L’area mancava di acqua e fu necessario trasportarla con immense cisterne. L’efficienza paesaggistica della creazione era data invece dall’abbondante fauna che vi veniva cacciata.
Le numerose vedute della seconda metà del Settecento, ben rappresentano come l’edificio, con la sua mole incombente su Napoli, delineava un episodio di grande importanza paesistica in rapporto all’intera struttura della città. Occorre attendere gli interventi successivi, nel periodo napoleonico, per l’integrazione dello sviluppo urbano e il collegamento con la costruzione del ponte della Sanità.
La reggia di Capodimonte fu destinata ad accogliere anche un “capriccio del re”: la Real Fabbrica di porcellana di Capodimonte. L’interesse per la porcellana nasceva nella moglie di re Carlo, Maria Amalia Valpurga, figlia dell'Elettore di Sassonia Federico Augusto, nonché nipote di Augusto il Forte, creatore della celebre fabbrica di porcellana di Meissen.
Anche in questo caso, si sopperì alla mancanza in loco del caolino, indispensabile nel processo di realizzazione dei prodotti ceramici, con massicce importazioni.
2.2 La reggia di Portici
Nel 1738 vennero acquistate le ville del conte di Palena e del principe di Santobuono, tra Portici e Resina, con l’intenzione di renderle adatte ad ospitare il re e la sua corte. Ben presto, appena definita l’estensione delle terre, si passò all’idea di un palazzo costruito ex novo.
L’insolita posizione del palazzo posto a cavallo della rumorosa “strada delle Calabrie”, è stata sempre oggetto di aspre critiche da parte di alcuni studiosi. Essa invece rappresenta forse l’unico elemento originale in un contesto architettonicamente mediocre e fin quando non fu costruito il Palazzo di Caserta, Portici fu la residenza favorita della famiglia reale. La sua particolarità era la vecchia strada che divideva a metà il palazzo, così che tutti quelli che andavano in Calabria, a Torre del Greco o nelle città costiere, dovevano attraversarlo.
La novità era data da due assi prospettici che si sostituivano ad una prospettiva unica, estendendo il concetto di edificio risolto in chiave urbanistica mediante prospettive dinamiche. La veduta tangenziale costituisce il punto di vista principale dei nuovi edifici borbonici che diventa così un elemento caratterizzante in accordo con la loro dimensione urbana. La reggia di Portici fu iniziata contemporaneamente a quella di Capodimonte e a lungo si è creduto che il Palazzo fosse stato ideato e realizzato in funzione delle ville preesistenti acquistate da re Carlo. Invece, dopo un’attenta lettura delle antiche proposte progettuali, è stata spiegata la particolare costruzione della reggia grazie a motivazioni non tanto architettoniche quanto piuttosto di carattere politico e sociale: re Carlo voleva «sperimentare una nuova forma di palazzo che incarnasse, verso l’esterno, l’idea di “monarchia clemente”, che consentisse al popolo di sentirsi materialmente e fisicamente più vicino al sovrano».
Quando Carlo scelse Portici come residenza, gli fecero subito osservare che era troppo vicino al Vesuvio e quindi pericolosa. La località, però, aveva vari vantaggi: dando sul mare da un lato, e su un ampio giardino e su un bosco di querce sempreverdi dall’altro, risultava idonea alla caccia e alla pesca contemporaneamente, inoltre era vicina ad Ercolano, luogo d’incanto ancora più “sottile”.
Il Palazzo, costituito da una parte inferiore ed una superiore, è diviso da un vasto cortile attraversato dall’antica strada citata. Dal vestibolo si accede al primo piano attraverso un magnifico scalone lungo il quale sono poste statue provenienti da Ercolano; anche per i pavimenti vennero usati mosaici provenienti dagli scavi.
Al primo piano vi sono la Sala delle Guardie e la Sala del Trono, che ancora conservano parte delle decorazioni originarie.
L’edificio fu dotato di due parchi, uno inferiore e uno superiore, entrambi sorgenti sulla colata lavica dell’eruzione del 1631. Per interrare i lecci adulti con le loro radici, su un suolo roccioso lavico, fu necessario usare gli esplosivi, realizzando un intervento di ingegneria botanica all’avanguardia per i tempi.
Il giardino all’inglese che degrada dolcemente verso il mare è caratterizzato da lunghi viali; notevole è la Fontana delle Sirene, una statua di scavo raffigurante la “Vittoria”, il “Chiosco” di Re Carlo, con un tavolino con mosaico, la Fontana dei Cigni e la statua di “Flora”, anch’essa di scavo; vi è poi un anfiteatro a tre ordini di scale.
Al di là del giardino si estendeva il bosco, realizzato, tra l’altro, tenendo presente le tipiche attrazioni adibite agli svaghi di corte: il recinto per il gioco del pallone, la piazza fortificata per le esercitazioni militari, la fagianeria.
Nato come dimora estiva della Corte, il Palazzo Reale divenne col tempo residenza reale e sede del Museo Ercolanense, voluto da Re Carlo per raccogliere gli oggetti portati alla luce ad Ercolano. Terminati i lavori nel 1742, la Reggia si rivelò però insufficiente ad ospitare tutta la corte e così molte famiglie aristocratiche, per star vicino ai sovrani, acquistarono o fecero costruire ville nei dintorni, creando quel patrimonio artistico caratteristico dell’area, noto come “Ville Vesuviane”.
2.3 La reggia di Caserta
Di tutte le splendide opere e costruzioni con cui i Borbone abbellirono e modernizzarono il Regno delle Due Sicilie, il fiore all’occhiello è senz’altro l’universalmente conosciuta ed apprezzata reggia di Caserta, come noto progettata ed in gran parte costruita dall’architetto olandese Ludwig Van Wittel, italianizzato Vanvitelli. Questi fu voluto a Napoli personalmente da re Carlo, il quale, da degno pronipote del Re Sole, voleva procedere alla costruzione di un nuovo Palazzo Reale, “dimora” all’altezza di un Sovrano Borbone e della sua Corte.
L’esigenza alla base di questo progetto era principalmente quella di avere una reggia non a Napoli ma vicino Napoli, quindi lontana dal mare per il timore degli attacchi della flotta inglese, ma, allo stesso tempo, non troppo distante dal centro politico e amministrativo. Inoltre, nelle sue intenzioni, la nuova costruzione sarebbe dovuta essere la più bella e grande reggia del mondo, ad onore del nuovo Regno da lui conquistato e come ulteriore riprova della sua volontà che tale Regno fosse realmente indipendente e sovrano.
Ed infatti re Carlo seguì, nel corso degli anni, personalmente i lavori, unitamente alla Regina, divenendo entrambi a tutti gli effetti le guide ispiratrici di Vanvitelli, senza mai travalicare però il progetto iniziale del grande architetto. Fu un “unione d’animi” eccellente: ciò è riprovato dallo stesso Vanvitelli che, nelle sue periodiche lettere al fratello, esprimeva sempre la sua gioia per l’attenzione che i due Sovrani davano al suo lavoro e per l’armonica intesa che permetteva di procedere velocemente e con grande profitto.
Il luogo prescelto fu un vasto territorio pianeggiante e boscoso alle falde dei monti Tifatini, sulle terre dei Conti di Caserta. Il complesso del palazzo reale con i suoi giardini è il più grande d’Europa.
Il parco si compone di due parti: il giardino all’italiana e il giardino all’inglese, uniti da viali, fontane, una fortezza in miniatura, una cinta bastionata, più tardi trasformata in giardini.
La prima pietra venne posta, con una cerimonia ufficiale, il 20 gennaio 1752, trentaseiesimo compleanno del re Carlo.
Tale momento viene ricordato dall'affresco di Gennaro Maldarelli che campeggia nella volta della Sala del Trono.
Il progetto prevedeva un grandissimo edificio con due facciate uguali, l’una sulla piazza d’armi, l’altra sui giardini e ben 1200 stanze.
I giardini furono completati dopo la partenza del Re e nel 1762 l’acqua, proveniente da Maddaloni, a 41 km di distanza, arrivò al Palazzo tramite l’Acquedotto Carolino, sviluppandosi prevalentemente in gallerie, con tre viadotti ispirati agli acquedotti di epoca romana, tra cui i celebri “Ponti della Valle di Maddaloni”.
Non è certo qui possibile fare una descrizione del Palazzo Reale e dei suoi giardini, trattandosi di uno dei capolavori dell’architettura più conosciuti ed amati al mondo, pertanto si farà solo qualche accenno agli ambienti più belli ed importanti.
Nell'atrio, all'ingresso del palazzo, si apre il vestibolo inferiore dal quale si può ammirare l'infilata dei quattro cortili che aprono la vista sul parco.
Lo Scalone Reale, altrimenti detto “Scalone d’Onore”, conduce al piano superiore dove si trovano il Vestibolo, gli appartamenti Reali e la Cappella Palatina. Esso si presenta come una grande rampa centrale che, successivamente, si sdoppia in due rampe parallele.
Al termine della rampa centrale si accede al primo pianerottolo, dove iniziano le rampe parallele, alla base delle quali si trovano due leoni in marmo bianco, realizzati da Pietro Solari e Paolo Persico.
Di fronte al Vestibolo superiore c’è la Cappella Palatina, inaugurata nella Messa di Mezzanotte del Natale del 1784, alla presenza del Re e di tutta la Corte. La cappella, ispirata alla cappella della reggia di Versailles, è una sala rettangolare, con la volta a botte ornata di cassettoni e rosoni dorati e un'abside semicircolare.
A sinistra della Cappella si aprono gli Appartamenti Reali: il salone degli alabardieri, il salone delle guardie, il salone di Alessandro.
L'Appartamento Vecchio era abitato già alla fine '700 da Ferdinando IV. Le sale di rappresentanza sono note come Stanze delle Stagioni perché hanno i soffitti affrescati con allegorie delle stagioni.
L'Appartamento Nuovo, così chiamato perché costruito nell'Ottocento, consta di tre stanze: la sala di Marte, la sala di Astrea e la sala del Trono, la più grande del palazzo.
Attraversata la Biblioteca Palatina, si arriva alla Sala Ellittica, tutta dipinta di bianco, senza decorazioni, destinata ai divertimenti di corte; attualmente ospita l’incantevole Presepe borbonico, testimonianza dell’enorme importanza data dai Borbone alla tradizione napoletana dell’arte presepiale.
Un altro gioiello del Palazzo è il Teatro, a ferro di cavallo, progettato solo successivamente per espressa volontà del re Ferdinando IV, grande appassionato di teatro.
Dalla Sala Ellittica si accede alla splendida Pinacoteca Casertana, recentemente allestita con la sezione dei ritratti dei Sovrani e con quella dedicata agli splendidi paesaggi che Ferdinando IV commissionò a Jacob Philipp Hackert, secondo vero artista della reggia di Caserta.
Parte integrante della maestosità e della bellezza della reggia di Caserta è il meraviglioso parco, tipico esempio di giardino all'italiana, costruito con vasti prati, aiuole squadrate e soprattutto un trionfo di giochi d'acqua che zampillano dalle numerose fontane.
Grandioso effetto paesaggistico hanno le grandi cascate terminali delimitanti il lato occidentale del giardino inglese, con le incantevoli sculture, per le quali solo l’occhio può dare fedele riproduzione.
Il parco è stato spesso accostato ai giardini francesi e molto probabilmente Vanvitelli per il suo progetto teneva presente la grande tradizione dei giardini rinascimentali a cui pure quelli francesi si richiamavano.
Il parco è costituito da un enorme parterre che giunge fino alla “Fontana Margherita”. Tale spazio è ricoperto da un vasto manto erboso nel quale si distinguono le macchie circolari di lecci. Il bosco è delimitato da busti marmorei, "i termini".
A sinistra del palazzo, nel cosiddetto "bosco vecchio", sorge la Castelluccia, una costruzione che nella configurazione attuale ricorda un castello in miniatura e presso la quale il giovane Ferdinando IV si esercitava in finte battaglie terrestri.
Procedendo verso nord est si trova la peschiera grande, un lago artificiale con un isolotto al centro, in cui venivano simulate le battaglie navali.
Dalla fontana Margherita inizia la seconda parte del parco, realizzata da Carlo Vanvitelli, il figlio di Luigi.
Da questa si giunge ad una vasca che termina con la “Fontana dei Delfini”, così chiamata perché l'acqua fuoriesce dalle bocche di tre grossi pesci scolpiti in pietra.
Il parco comprende anche un Giardino Inglese, ricco di piante esotiche e rare e abbellito da serre, aiuole, boschetti e viali che seguono ed enfatizzano l'accidentata conformazione del territorio.
Il Giardino Inglese, sotto la guida e la cura dell'instancabile giardiniere inglese, John Andrew Graefer, è probabilmente uno dei primi in Italia costruito a fundamentis.
La regina di Napoli, Maria Carolina, su suggerimento di Sir William Hamilton, ministro plenipotenziario di Sua Maestà Britannica presso il regno di Napoli, aveva deciso di costruire a Caserta un giardino "informale" o "di paesaggio", secondo la moda che dall'Inghilterra andava diffondendosi in tutta Europa e che trovava la sua origine nei diversi fermenti culturali che, soprattutto durante il XVIII secolo, avevano portato alla riscoperta della dignità umana e della natura. Anche le descrizioni dei giardini cinesi che si diffondevano in occidente in quel periodo sembravano ben rispondere alle nuove idee di rispetto ed amore per la natura. I giardini "all'italiana", invece, con la loro struttura geometrica sembravano quasi “mortificare” quella spontaneità del mondo naturale esaltata da filosofi, poeti ed artisti, e non trovavano pertanto più corrispondenza nel pubblico, affascinato dal pittoresco e dall'esotico.
Nella realizzazione del progetto il giardiniere inglese fu affiancato da Carlo Vanvitelli che, come direttore dei lavori nella reggia di Caserta, si occupò della costruzione delle emergenze architettoniche di cui il giardino necessitava. Dalla collaborazione, per la verità non sempre pacifica, tra i due nacque un giardino di paesaggio sicuramente tra i primi in Italia.
Nella concezione del giardino di paesaggio si inserirono i nuovi interessi scientifico-botanici che spiegano la ricchezza di esemplari di specie esotiche e rare importate e che si cercava di acclimatare.
Il Giardino fu riordinato nel 1982 dopo decenni di dimenticanza ed è particolarmente vario, formato anche con sementi e piante di Capri, Vietri, Salerno, Cava de Tirreni, Pedemonte, Agnano, Solfatara, Gaeta ed ha un aspetto “disordinatamente naturale”.
Il giardino inglese costituì una sorta di centro di diffusione botanica, insieme agli altri annessi alle molte ville del territorio casertano, beneventano e napoletano che conservano ancora esemplari botanici che la tradizione orale o la documentazione scritta vogliono provenienti dai vivai reali.
Anche a Caserta non mancano gli effetti dei “capricci del Re” come l’impianto di numerosi gelsi, destinati all’alimentazione dei bachi da seta, indispensabili per produrre tessuti per la fabbrica di San Leucio.
2.4 Il Real Casino di Persano
Già prima dell’acquisto dei feudi di Serre e Persano, avvenuto nel 1758, Carlo di Borbone fece costruire il “casino reale” di Persano, su progetto dell’ingegnere militare Giovanni Domenico Piana, ma a causa di gravi dissesti statici, fu ristrutturato su progetto di Luigi Vanvitelli.
Il palazzo, a due piani, è di pianta quadrata con cortile centrale; negli angoli quattro vani ottagonali circuiscono tre scale elicoidali. Su di un lato dell’atrio di ingresso si trova l’ampio scalone di rappresentanza che si avvolge in un ampio vano riccamente decorato da stucchi.
Dal perimetro dell’edificio fuoriesce, per il solo pianterreno, l’abside della cappella di S. Maria delle Grazie.
Nel cortile una serie di arcate su due ordini delimitano ciascun lato; l’effetto chiaroscurale è affidato al contrasto tra le forti ombre delle arcate aperte e le superfici lisce dei chiusi volumi angolari.
Le opere destinate ad abbellire il “casino reale” sono state realizzate da artisti come Francesco Celebrano, Jacob Philipp Hackert, Salvatore Fergola, Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero ed altri.
L’Illuminismo e il diffondersi di una cultura ispirata ai modelli francesi, un più vivo contatto tra Napoli capitale e le maggiori città europee, nonché la diffusione delle teorie di Laugier e di Ruffo, che proponevano l’immagine di una città intesa come un bosco attraversato da viali, sono tutti elementi che di sicuro ispirarono la costruzione urbanistica del sito reale di Persano.
La notorietà di Persano è dovuta a situazioni diverse susseguitesi nel tempo. Carlo di Borbone lo volle “sito reale” scegliendolo per incrementare la razza del cavallo “Salernitano-Persano”, presente già dal 1649 e attore di importanti primati equestri. Oggi il Sito ospita uno dei presidi militari dell’Esercito Italiano nonché la più grande centrale fotovoltaica d’Europa.
3 Il piano paesaggistico: geografia delle Real Tenute
I palazzi di Capodimonte, Portici, Caserta e Persano, posti nelle immediate vicinanze della città e circondati da ampie riserve di caccia, permettevano un quotidiano sfogo dell’attività venatoria, perseguita dal re con una tale costanza da far sì che, oltre ad essere considerata tra gli aspetti determinanti della sua personalità, veniva intesa da alcuni come un ottimo rimedio contro l’ereditaria ipocondria. Carlo aveva un’idea esagerata della propria dignità reale, ma era anche infastidito dalla pompa regale e detestava ogni cerimonia, per cui lontano dagli impegni inerenti la sua funzione, si rifugiava in quei luoghi che gli permettevano di dare sfogo alle sue esigenze private.
Queste considerazioni spiegano quanto si verificò durante i regni di Carlo e di suo figlio Ferdinando. In tale periodo entrarono a far parte del patrimonio reale, mediante esproprio, permute con altri feudi o acquisto, tanti territori come l’isola di Procida, gli Astroni, Agnano, Licola, Calvi, Capriati, il lago di Patria, Cardito e Carditello, Persano, Venafro, Torre Guevara, il fusaro di Maddaloni, la selva Omodei di Caiazzo, S. Arcangelo di Caserta, il colle di Quisisana presso Castellammare e altre numerose località a cui, insieme ai palazzi di Capodimonte, Portici e Caserta, fu riservato un ramo speciale dell’amministrazione borbonica con la denominazione di “Siti Reali”.
In tali luoghi interessanti per la selvaggina spesso vennero costruiti edifici o ampliate e adattate vecchie costruzioni per consentire la permanenza del sovrano e del suo seguito durante le battute di caccia.
Fu restaurata la grotta di Pozzuoli, prolungata la via tra Salerno e Persano e adeguata la strada tra Capua e Venafro per consentire i continui spostamenti della corte, migliorando i collegamenti tra la capitale e le proprietà reali.
Gli edifici “reali” furono progettati da buoni architetti e decorati dai migliori artisti presenti nel regno; le loro riproduzioni avevano per oggetto le vedute di Napoli, ritratte anche sui vasi di porcellana o sui piatti.
Gli affreschi che arricchivano queste residenze sono andati, però, quasi del tutto perduti, ma nei musei napoletani restano dei quadri con scene di caccia incorniciati da splendidi boschi o di ampie pianure. Quasi sempre il protagonista è il re che, circondato da battitori e cacciatori reali, cavalca per rincorrere cinghiali o daini oppure colpisce gli uccelli dai margini di un boschetto e da una barca.
Il feudo di Capriati, acquistato da Carlo di Borbone ed ampliato poi da Ferdinando IV, faceva parte di un'estesa riserva di caccia che si sviluppava al confine tra Campania e Molise ed includeva anche le località di Venafro e Ciorlano nei cui pressi sorgeva la splendida Tenuta del Torcino. Questo comprensorio costituiva il limite settentrionale dei territori di caccia dei Borbone a cui si accedeva attraverso un sontuoso ponte fatto erigere dal re. Il bosco abbondava di cinghiali della più bella specie, di caprioli, di lepri, volpi, lupi, nonché di molti volatili.
La Torre di guardia S. Lucia, il muro di cinta borbonico posto sulla cima della montagna, la sorgente, costruita anch’essa in epoca borbonica, costituiscono ancora oggi i riferimenti storici della tenuta, raffigurata nei meravigliosi dipinti del maestro Hackert.
Spostandosi dall'interno verso il litorale domizio, a sud, è possibile raggiungere Mondragone. La città, a dispetto dell'odierna vocazione balneare, fu apprezzata riserva di caccia dei Borbone che ne bonificarono il territorio.
Sempre in Terra di Lavoro, regione storico-geografica della Campania, lungo la via Casilina, ai piedi del Monte Maggiore, si trova Calvi Risorta, l'antica Cales, dov’è ubicato il Casino Reale del Demanio di Calvi.
Dell'immenso complesso, deturpato dal tempo e dall'incuria, facevano parte la Torre d'Occidente, il Casino Reale, il cui spazio antistante era impegnato dal "Circo" destinato alle corse dei cavalli, ed una straordinaria e lussureggiante riserva di caccia.
Altro splendido sito voluto dai Borbone era quello di Caiazzo, dove re Carlo fece costruire la tenuta della Fagianeria, abbellita con edifici e casini di caccia realizzati dal Vanvitelli. Unica testimonianza dell'opera dell'architetto di corte rimane la Palazzina Borbonica, fulcro dell'intera tenuta che, pur in stato di discreta conservazione, ha smarrito le sue principali caratteristiche interne.
Accanto a queste località elette dai Borbone come luoghi ideali per l'attività venatoria ce ne furono altre che sono diventati eccellenti centri di produzione vinicola. Quest’antichissima tradizione campana risalente alla prima colonizzazione greca (VIII sec a.C.) diventò un’autentica passione anche per i Borbone che fin dalla metà del Settecento, a San Leucio, iniziarono a sperimentare la disposizione a ventaglio dei vigneti per migliorare la produzione e la resa vinicola.
4 L’architettura delle aziende produttive
Persano, Venafro, Procida e Carditello erano luoghi caratterizzati dalla qualità del paesaggio e della natura, ma anche legati alle attività produttive. Per tale motivo gli edifici, realizzati con la funzione di residenza reale, anche se temporanea, dovevano tenere conto delle esigenze legate a tutte le funzioni che normalmente in esse si svolgevano.
Gli studi che si sono occupati dell’architettura dei cosiddetti “siti borbonici” ne hanno, di volta in volta, sottolineato il carattere di luoghi di produzione agricola o di mera residenza reale.
Anche il sistema della viabilità realizzato in epoca borbonica è spesso attribuito alla necessità dei sovrani di raggiungere questi luoghi di delizie con facilità.
Il fenomeno tende a distinguersi nel tempo, separando in maniera progressivamente più netta i siti destinati alla residenza, rispetto a quelli nei quali era prevalente la funzione produttiva; è questo il caso del complesso di San Leucio.
Si deve sottolineare che le costruzioni della prima età borbonica accentuano il carattere rappresentativo della residenza, anche in ossequio al gusto dell’epoca che “popolava Versailles di falsi pastori”, cioè la moda che si diffuse in quel periodo di farsi ritrarre con abiti da popolani.
In questa tendenza convergeva anche la necessità di ribadire il legame della dinastia con il territorio amministrato e l’esigenza di dare impulso alle attività economiche in uno stato che faticosamente cercava di riorganizzare le proprie strutture produttive.
In quest’atmosfera vengono realizzati alcuni fra gli esempi più interessanti della produzione architettonica di fine Settecento, altrimenti segnata prevalentemente dalla costruzione di edifici religiosi.
L’arrivo a Napoli di Luigi Vanvitelli e Ferdinando Fuga, secondo alcuni studiosi, orientò fortemente l’architettura, apparentemente in aperto contrasto con la tradizione costruttiva ed artistica napoletana, ancora molto impregnata della cultura barocca. Tuttavia in queste case reali “minori”, dove la funzione rappresentativa e celebrativa è posta in secondo piano rispetto all’aspetto privato e ricreativo, emergono soluzioni architettoniche ed artifici decorativi che sembrano proseguire la tradizione artistica napoletana, pur aprendosi sensibilmente ai nuovi orientamenti neoclassici.
L’aspetto che lega fra loro le realizzazioni borboniche dell’ultimo quarto del XVIII secolo è soprattutto l’inserimento nel territorio e nel paesaggio delle nuove “fabbriche”: ciò accade a San Leucio nel Casino Vecchio, come anche nel Belvedere e soprattutto nella reggia di Carditello.
Anche se il sistema della viabilità è studiato appositamente per rendere migliori le condizioni di fruizione del sito da parte del sovrano, l’articolazione dei volumi degli edifici ne tiene conto nelle visuali prospettiche. Infatti se il Casino Vecchio di San Leucio si sviluppa prevalentemente su di un solo fronte tangente alla via di accesso, Carditello ed il casino del Belvedere giocano contemporaneamente sulla lunga visuale imposta dalla via di accesso e su prospettive assiali che scaturiscono dal rapporto con i terreni che costituiscono la tenuta e dal progetto di una nuova città.
Carditello è il fulcro di un progetto a scala territoriale che nel riproporre il motivo del tridente, familiare a Vanvitelli che lo aveva sperimentato con successo a Caserta, tende a fare della residenza reale il centro ideale di un progetto anche economico.
La bonifica di aree umide e paludose permise, infatti, l’apertura di nuove strade utili allo svolgimento delle attività agricole organizzate in azienda oltre che allo sviluppo della zootecnia, intesa come attività sperimentale di selezione di razze pregiate.
Nel casino di Carditello, nel casino Vecchio e nel Belvedere di San Leucio convivono la funzione residenziale e quella produttiva.
Mentre nel casino Vecchio, però, le strutture agricole, i depositi e le stalle, sono realizzati all’interno dell’area circostante, separati dagli ambienti destinati alla residenza della famiglia, nel sito borbonico di Carditello la residenza è il centro ideale e geometrico dell’intero insediamento, rispetto al quale domina anche lo sviluppo verticale. Qui il corpo centrale è il più elevato della composizione, così come il Palazzo Reale di Caserta rispetto alle costruzioni circostanti, il cui limite di altezza era fissato nei corpi ellittici antistanti la facciata.
Al corpo centrale della composizione si affiancano gli altri fabbricati, tutti fisicamente collegati con la palazzina centrale, al punto che, dal primo piano della residenza, attraverso i fienili che sovrastano le stalle, era possibile raggiungere tutte le parti dell’insediamento. Questo tipo di collegamento sembra quasi sancire il legame forte tra i Borbone ed il personale addetto alla produzione a significare come al sovrano, signore di un feudo, stanno a cuore i propri interessi che controlla continuamente.
Anche nella netta differenziazione fra la residenza principale e quelle del personale di servizio esiste comunque una sorta di affinità; gli annessi agricoli, quali le stalle, ad esempio, sono interrotte ritmicamente dalle torri delle residenze che si elevano quasi quanto la palazzina centrale.
Nel 1744 Carditello fu destinato a luogo di produzione agricola, mentre la realizzazione del complesso architettonico risale al 1787, quando venne chiamato l’architetto Francesco Collecini.
L’architettura di questa parte del regno corrisponde alle tendenze neoclassiche che si andavano affermando.
Il complesso è concepito con una logica modulare, che alterna torri quadrate e torri ottagonali a bassi corpi rustici, destinati a scuderie, con copertura a falde, il tutto articolato intorno ad un nodo costituito dalla dominante palazzina centrale.
La sequenza lineare delle costruzioni, improntata al concetto di simmetria, contrasta apparentemente con l’organizzazione dei percorsi, negando la possibilità di una visione organica del complesso nella sua interezza.
In realtà gli assi visuali convergono tutti sulle tre prospettive della palazzina centrale: le due laterali, che comprendono anche parte dei corpi di fabbrica posti sulle ali del complesso, e quella centrale che la inquadra attraverso il cancello principale.
L’esterno di questa costruzione è trattato come una superficie autonoma, segnata da un alto basamento a scarpa con bugnature poco rilevate e da un grande arco centrale cieco, sul quale poggia il piano nobile, con ampie forometrie e con copertura a falde. Domina su tutto un’altana, posta in corrispondenza della cupola della cappella, che sovrasta l’intera composizione. L’altana così completamente inglobata è costituita da grandi archeggiature fortemente strombate funzionali ad alleggerire il prospetto.
L’interno della residenza invece risente della consolidata tradizione artistica dell’età barocca. Solo l’ordine gigante del piano terra della cappella, rappresentato da colonne libere che sostengono l’elegante trabeazione costituita dai matronei, è un’ulteriore affermazione della ricerca neoclassica, ancora più percepibile nel momento in cui fra l’ambiente di culto, che diveniva spazio presbiteriale, e l’esterno si stabiliva la continuità, mediante l’apertura del portellone sul cortile interno, che appariva come una grande navata all’aperto.
Tale artificio riproponeva la soluzione sperimentata da Luigi Vanvitelli alcuni anni prima nel Teatro di Corte di Caserta, ribaltandone la logica: mentre a Caserta il paesaggio naturale costituisce il fondale scenico dell’evento spettacolare, a Carditello esso entra prepotentemente all’interno della costruzione.
Anche tutta la decorazione è improntata alla ricerca di una continuità con il paesaggio circostante, perseguita nei motivi floreali degli ambienti, nei paesaggi affrescati da Hackert, nella coloriture dei pannelli murari trattati con particolari sfumature di verde, su cui si stagliano gli stucchi costituiti da curiosi trofei di caccia in cui le prede si affiancano alle armi. Le modanature architettoniche delle logge interne, trattate con pittura che simula il marmo grigio di Mondragone, interrompono le superfici e quasi fingono un portico.
E’ nella copertura della Cappella che si evidenzia, invece, l’influenza della tradizione barocca: in un vorticoso movimento dei lacunari che si avvolgono su se stessi, la parte superiore della cupola esplode con l’affresco dell’”Eterno Padre”, in una anticipazione del premio finale destinato a coloro che amministrano con saggezza ed ai buoni cittadini che rispettano le leggi.
5 Il lavoro nelle “fabbriche” borboniche
Il tentativo della monarchia borbonica di contrastare l’arretratezza feudale del paese e l’accentramento della proprietà feudale a Napoli si concretizzò con l’introduzione di riforme economiche e sociali ispirate alle idee illuministiche che si proponevano di conseguire: ”...la modernizzazione della macchina statale ed il potenziamento delle istituzioni laiche; lo sviluppo economico; la realizzazione di una società più equa e più stabile...”. Se e in quale misura questi obiettivi siano stati conseguiti è tuttora argomento di discussione.
E’ innegabile comunque che, anche se in maniera contraddittoria, i governi di Carlo e Ferdinando IV di Borbone apportarono originali e importanti trasformazioni nell’Italia meridionale, in campo economico, giuridico, commerciale, militare. Furono incrementate le opere pubbliche, incoraggiati le arti e gli scavi archeologici, si cercò di limitare lo strapotere dei baroni e l’incremento della proprietà ecclesiastica.
Per rimuovere la struttura feudale del territorio, era ben chiaro agli intellettuali e agli aristocratici illuminati dell’epoca il ruolo che l’agricoltura avrebbe dovuto svolgere per la rigenerazione del tessuto sociale. Domenico Grimaldi, illuminista impegnato, allievo di Antonio Genovesi, figura autorevole dell’illuminismo economico e tecnico, nella sua opera “Piano di riforma per la pubblica economia nelle province del Regno di Napoli e per l’agricoltura delle Due Sicilie”, in base all’esperienza della sua fattoria sperimentale a Seminara in Calabria, sosteneva ”...la necessità di nuove tecniche agricole, di un adeguato sistema di irrigazione,…di conquistare i campagnoli più intraprendenti alla causa della produzione...”. Studiando il “vivere civile” e la “felicità” dei cittadini, egli elaborò un piano di ammodernamento agricolo per iniziare la rivoluzione dell’economia “campestre” introducendo le pratiche “rustiche”, che erano già una realtà negli altri Stati “italiani”.
Consentendo all’agricoltura di applicare nuovi metodi e conseguire miglioramenti tecnici, si compiva un’opera illuminata d’istruzione e di rigenerazione del tessuto sociale, a cominciare dalla base, ossia dall’attività primaria dell’agricoltura. “...D’altra parte lo stesso sovrano dava esempio di migliorare l’agricoltura nelle terre di sua proprietà o destinate a siti di delizia della real casa, facendovi praticare tutt’i nuovi utili trovati, ed introducendo le necessarie macchine...”.
Le strategie di recupero, di costruzione e di valorizzazione del territorio in area campana, l’acquisizione di terreni trasformati prima in riserve di caccia e successivamente in siti reali, abbelliti con casini e residenze reali, lo sviluppo di una rete di infrastrutture che collegavano i siti reali tra loro e con la capitale, la bonifica della pianura e la ristrutturazione dei regi lagni, il progetto di una capitale nell’entroterra, l’incentivazione delle attività produttive primarie, soprattutto nei siti reali di San Leucio e di Carditello, sono tutti argomenti presi in considerazione dall’economista Ludovico Bianchini, nella “Storia economica del regno di Napoli”.
5.1 La Real Tenuta di San Leucio
La Real Tenuta di San Leucio sorgeva sull’omonima collina posta a nord est della reggia ed era nata proprio come luogo di svago.
Oltre ad ospitare l’esperienza manifatturiera con il villaggio operaio voluto da Ferdinando IV, diventò un’azienda agraria improntata a moderni criteri agronomici applicati alle diverse colture, alcune tradizionali come la vite e l’olivo, altre legate ad esigenze più recenti. Fu introdotta, infatti, la coltivazione di ortaggi e frutta preferiti dai sovrani, di asparagi e ananas, ed incrementata quella del gelso, legata alla produzione della seta, poi lavorata nei setifici leuciani.
Gli Acquaviva, principi di Caserta, nella metà del '500, vi avevano costruito un castello, adibito a casino di caccia, chiamato "Belvedere" per la vista panoramica della reggia di Caserta e parco, del Vesuvio e della marina del golfo.
Nella seconda metà del '700 il feudo fu acquistato da Carlo di Borbone come riserva di caccia e quando egli fu richiamato in Spagna, ne proseguì la strategia territoriale il figlio Ferdinando IV.
Il primo interessamento per San Leucio risale al 1773, quando la proprietà fu ingrandita, recintata e munita di un casino destinato al riposo durante l’attività venatoria, diventando la meta preferita del giovane re.
Nel 1778 il tragico episodio della morte del primogenito Carlo Tito spinse il re e la consorte ad allontanarsi da San Leucio , destinandolo ad uso più funzionale.
Il re Ferdinando, illuminato dagli studi di Gaetano Filangieri e Bernardo Tanucci, ebbe, infatti, l'idea di trasformare l'antico casino baronale in reggia-filanda. Ne diede incarico a Collecini e aprì le porte della sua casa in collina agli artigiani della seta, avviando un’inedita convivenza: da un lato le eleganti stanze reali, dall'altra le macchine rumorose che lavoravano e tessevano la seta. La sala delle feste lasciò spazio alla chiesa per la comunità e attorno all'edificio adibito alla lavorazione della seta furono realizzate la scuola normale, le abitazioni per operai e maestre, le stanze per la trattura, filatura e tintura della seta.
Nasceva Ferdinandopoli, città ideale in cui dare attuazione a riforme sociali, introducendovi la manifattura della seta.
Nel 1789, Ferdinando IV promulgò anche il "Codice delle leggi" che regolavano in modo innovativo la vita e il lavoro della comunità leuciana, un esempio di socialismo ante litteram.
In esso venne sancita: la parità di diritto per i coloni, l’annullamento della differenza tra uomini e donne nelle successioni ereditarie, il guadagno proporzionale al merito, l’uguaglianza nell’abbigliamento, l’istruzione obbligatoria dai sei anni in poi, l’abolizione dei testamenti, le eredità lasciate a parenti o al Monte degli Orfani.
Vennero anche abolite le doti per le figlie insieme al divieto assoluto dei genitori di interferire negli affari di cuore dei figli. Un'unica limitazione: poteva effettuare il matrimonio chi dimostrava buona capacità nel lavorare la seta come arte da difendere e tramandare. Il cittadino così si sentiva parte attiva di una comunità di uguali e al tempo stesso protagonista essenziale della lavorazione della seta in armonia con il contesto.
Con lo Statuto Leuciano, re Ferdinando IV aspirava ad essere ricordato come riformatore illuminista. Probabilmente per questo motivo fu tenuta nascosta l'identità di colui che scrisse il Codice che venne, invece, stampato segretamente e tradotto in più lingue.
San Leucio è un esempio concreto di come i Borbone costruivano i nuovi borghi per sperimentarvi impianti industriali.
La politica riformatrice non è solo data dal codice delle leggi, ma è visibile anche nell’assetto urbanistico e architettonico del borgo, non ispirato all'assolutismo monarchico, ma ai principi di uguaglianza.
La stessa città era stata organizzata intorno alla piazza della seta e il portale settecentesco fungeva da accesso alla reggia-filanda e ai quartieri con le case operaie. Lo stile era razionale, funzionale e semplice, con decori essenziali. Il complesso si basava su forme geometriche quadrate e rettangolari non curvilinee, prerogativa dell'ambiente naturale collinare in cui era inserito. I fabbricati, infatti, seguivano i dislivelli del colle e i giardini venivano realizzati su terrazzamenti.
Il sogno di una città ideale con teatro, ospedale, cattedrale e aree verdi finì con la fine del '700 e con l'avvento della rivoluzione francese. Ne rimangono oggi il borgo e soprattutto gli artigiani e i maestri che ancora tessono la seta.
5.2 Il Real sito di Carditello
Fu perfettamente inserita nella riorganizzazione territoriale anche la tenuta di Carditello, vasto territorio pianeggiante, sito in Terra di lavoro a metà strada tra Napoli e Caserta. La “difesa di Cardito seu Carditello” fu ritenuta, infatti, da Carlo di Borbone particolarmente adatta, oltre che alla caccia, al “perfezionamento Razza de’ cavalli”, per cui dal 1744 la prese in locazione per 2800 ducati l’anno.
Ferdinando IV proseguì il progetto paterno ampliando la tenuta con diversi territori “…ora acquistandoli ora rivalendosi di diritti che le leggi gli accordavano…”.
La “Real Delizia” apparteneva al Conte d’Acerra e Carlo la volle acquistare perché adatto all’attività venatoria e all’allevamento sia dei cavalli che dei bufali, dalle cui femmine si ricavava, e si ricava ancor oggi, il latte necessario per la produzione della “mozzarella”; da qui l’edificazione del caseificio.
Al centro dei terreni vi era poi una “masseria” chiamata “La Foresta”, un deposito di grano, fieno e prodotti agricoli.
Come nel caso di San Leucio, da questa rustica costruzione si volle ricavare un vero e proprio “casino reale” per accogliere la corte durante i soggiorni dedicati alla caccia.
Fu, però, Ferdinando IV, fautore dell’intervento, che si premurò di avviare l’attività agricola. A partire dal 1784 furono portati a termine i lavori di costruzione dello stallone,della scuderia, delle abitazioni dei vaccari, della stalla delle bufale, della torre dove avveniva la manipolazione dei latticini e del granaio.
Ai due lati del casino si costruirono otto torri, destinate, ai piani superiori, ad abitazioni per i lavoratori. Inoltre venne eretto l’ampio stadio per le feste campestri e le corse dei cavalli, delimitato nel retro da due vaste corti quadrate. L’intera tenuta era di complessivi 1750 ettari.
Carditello doveva contrapporsi a San Leucio, almeno nelle intenzioni di re Ferdinando: a differenza dell’esperienza innovativa del setificio, essa avrebbe dovuto mettere in risalto la sua adesione all’antica politica agricola.
Al piano terra si trovavano le cucine, l’armeria e le sale per il personale. Attraverso due scale simmetriche si accedeva al piano superiore dove erano gli ambienti destinati ad accogliere la famiglia reale e il salone per i ricevimenti utile per i ritrovi che venivano organizzati al rientro dalla caccia.
Particolarmente interessante era poi la piccola chiesa, di stile tipicamente settecentesco, alle cui decorazioni, come a quelle della palazzina centrale, lavorarono i maggiori artisti della corte, fra cui sicuramente Hackert. Arazzi di Pietro Duranti, su cartoni di Fedele Fischetti, arricchivano il salone maggiore, in cui era affrescata anche la volta.
I siti reali, quindi, non erano soltanto luoghi di ozio e svago in cui il signore profondeva capitali per fastose costruzioni ed elaborati giardini, ma quasi un’azienda agricola moderna, in cui il sovrano “illuminato” investiva nelle trasformazioni agrarie, per uno sfruttamento ideale del territorio, coniugando il ”bello” e l’”utile” secondo i dettami del Settecento.
Del resto questo accadeva anche nel resto d’Italia, anche se con modalità e protagonisti diversi. Si pensi alle grandi ville signorili sorte dalla seconda metà del XVII e nel XVIII secolo in Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto, oltre al ruolo che assunsero i “centri di riorganizzazione del paesaggio agrario in grandi aziende padronali”.
Nella vastissima tenuta di Carditello erano stati costruiti anche i comodi rurali necessari al ricovero degli animali, alla lavorazione dei prodotti e alle abitazioni del personale, mulini, masserie con cappelle, “cavallerizze” con giardini, frutteti, un’azienda di apicoltura e case rurali. L’organizzazione di tale tenuta dunque, forse più di quella di San Leucio, ben rappresenta l“azienda signorile” a cui precedentemente si faceva riferimento ed evidenzia il ruolo svolto dalla monarchia borbonica nella trasformazione del paesaggio agrario mediante l’attuazione del progetto di incentivazione dell’attività agricola che a Carditello prevedeva l’introduzione di nuove razze, quali le “vacche lodigiane”, il miglioramento delle razze equine, l’allevamento bufalino, l’ammodernamento del sistema d’irrigazione con l’introduzione della “tromba a fuoco” per innalzare l’acqua del Volturno.
6 La rappresentazione cartografica e pittorica del Regno dei Borbone
La consapevolezza dei grandi cambiamenti intervenuti nelle campagne e la necessità di rappresentarli a fini celebrativi, catastali e militari spinse gli stessi sovrani, in particolare Ferdinando IV, a chiamare a corte geografi, come il padovano Antonio Rizzi Zannoni, fondatore della Reale Officina Topografica, e alcuni paesaggisti.
La particolare efficacia artistica della “Carta Topografica delle reali cacce di Terra di lavoro e loro adiacenze” disegnata da Rizzi Zannoni nel 1784, rimasta manoscritta, favorisce la percezione immediata delle aree destinate alla caccia reale, punti di eccellenza in un’area vastissima, tra i quali si svilupperanno successivamente i siti reali di Carditello e San Leucio.
Anche i dipinti raffiguranti questi luoghi o la fertile pianura campana con i campi coltivati in bell’ordinerappresentano fedelmente “le idee di Ferdinando circa l’economia agricola del suo paese…nello spirito dei principi politici di stampo paternalistico che Gaetano Filangieri aveva posto a fondamento di un'agricoltura efficiente”.
Ci sono due rappresentazioni particolarmente significative la cui lettura permette di cogliere le opere di trasformazioni fondiarie e la coltivazione di essenze arboree ed arbustive nelle tenute di San Leucio e Carditello, quale contribuito innovativo per la costruzione di attività economiche redditizie nelle campagne e di un paesaggio agrario che ha connotato tale territorio fino ad alcuni decenni fa, in sintonia con quanto accadeva nel resto d’Italia.
Nella pianta acquerellata del “Recinto del real bosco e delizie di San Leucio”, realizzata nei primi decenni dell’Ottocento da Domenico Rossi, “tavolario” della Reale Amministrazione di Caserta, dedicata al Cavalier Antonio Macedonio, dalla rappresentazione delle qualità agricole del territorio e delle coltivazioni si evince la complessa organizzazione del sito, coerente con le diverse esigenze che avevano portato alla sua realizzazione.
La maggior parte della superficie è ricoperta dai boschi, la più antica “attrattiva” del sito, seguono le aree coltivate a uliveto e a vigneto. Si riconoscono i fabbricati destinati a residenza e svago dei reali, il Casino del Belvedere e il Casino vecchio, e quelli destinati alle attività produttive del sito, quali opifici, comodi rurali, residenze degli operai, come anche strade e condotti idrici.
Nella pianta particolareggiata della Reale Difesa di Carditello, redatta da Guerra, la costruzione sorge all’incrocio dei quattro stradoni principali dell’area antistante l’edificio: tre tracciati viari si proiettano nella campagna verso sud, il quarto alle spalle del complesso, attraversando la parte settentrionale della tenuta, si dirige verso la strada per Capua.
L’edificio comprendeva, al centro, i locali dedicati ai sovrani e la cappella e, lateralmente, i corpi di fabbrica dedicati alle attività agricole e agli allevamenti. L’area antistante, formata da un sentiero in terra battuta, richiamava la forma delle arene di epoca romana, abbellita da fontane e obelischi; un tempietto circolare era destinato a pista per i cavalli.
Un acquerello dipinto dal vero, di Alessandro D’Anna, conservato a Napoli nel museo nazionale di S. Martino, mostra il “Real casino di Carditello” “in una prospettiva che pone in particolare risalto lo spazio antistante gli edifici”.
San Leucio, luogo di una splendida residenza e di una moderna fabbrica di tessuti preziosi ad opera di Ferdinando di Borbone, è un esempio di natura “addomesticata”.
Il presente lavoro di ricerca è stato svolto col finanziamento del Fondo Sociale Europeo a valere sul Programma Operativo Nazionale “Per la scuola, competenze, e ambienti per l’apprendimento” 2014-2020. Avviso pubblico AOODGEFID/4427 del 02/05/2017 “Potenziamento dell’educazione al patrimonio culturale, artistico, paesaggistico” - Asse I – Istruzione – Fondo Sociale Europeo (FSE). Obiettivo Specifico 10.2 Miglioramento delle competenze chiave degli allievi - Azione 10.2.5 – Azioni volte allo sviluppo delle competenze trasversali con particolare attenzione a quelle volte alla diffusione della cultura d’impresa. Progetto: 10.2.5A-FSEPON-CA-2018-278 – Titolo: Real Tour
Il modulo Il nostro “meglio” ha focalizzato lo studio sui siti borbonici di cui ancora esistono testimonianze sul territorio limitrofo del Comune di Santa Maria Capua Vetere dove è ubicata l’ITE Leonardo da Vinci.
L’intero progetto è stato scritto e realizzato dalla professoressa Caterina Tartaglione, geografa ed esperta in Architettura del paesaggio, con l’intento di promuovere nelle nuove generazioni l’educazione al paesaggio e stimolare negli enti locali, nelle istituzioni pubbliche e private, l’interesse al valore civico di gestione e valorizzazione del territorio. Molti dei siti analizzati versano infatti in uno stato di necessaria manutenzione alla quale troppo spesso si aggiunge inerzia nonché incuranza…
Si ringraziano le professoresse Angela Farina e Rosa Simone, tutor e figura aggiuntiva del modulo per il valido supporto professionale e organizzativo.
Tra gli alunni, che hanno collaborato secondo i propri tempi e le peculiari attitudini, si ringraziano in particolare Stefania Krusa, Ilaria Monaco, Teresa Melone, Pasquale Santoro, Andrea D’Amico, Daniele Casertano, Bartolo D’Amico, Alessia Di Blasio e Pasquale Salemme per la distinta energia che ha accompagnato il loro impegno profuso nelle ore di attività.
GRAZIE!